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05/05/2005
DALL’AGIRE AL FARE

In questo articolo mi propongo una riflessione su un passaggio che, secondo il filosofo Umberto Galimberti, caratterizza il mondo in cui viviamo: il passaggio dall’Agire al Fare.
Sebbene i due verbi siano usati come sinonimi del “compiere una azione”, la differenza starebbe nel fatto che, mentre chi agisce tiene conto delle conseguenze della propria azione e quindi del lato etico (“giusto/sbagliato”, “utile/dannoso” e così via) chi fa non si preoccupa di alcuna conseguenza, fa e basta.

Spero che il lettore abbia a curiosità di andare avanti oltre le prime righe dell’articolo, perché dietro questa apparentemente astratta teoria c’è qualcosa che riguarda da molto vicino la vita di ogni giorno di tutti noi.
La logica del Fare, secondo Galimberti, è giunta al suo apice con il nazismo: quando a Norimberga vennero processati e condannati i gerarchi nazisti per lo sterminio avvenuto nei campi, la loro risposta di era: “io eseguivo degli ordini”. Sopprimere delle vite umane non era affatto considerato come qualcosa su cui riflettere, il soldato esegue un ordine, FA ciò che gli viene chiesto di fare e non si preoccupa di riflettere sulle conseguenze delle proprie azioni e dunque non si sente responsabile per esse.

Quando venne sganciata la bomba atomica su Hiroshima, 100.000 persone furono polverizzate in pochi secondi. Altrettante morirono nel periodo seguente per le radiazioni. Erano uomini, donne, vecchi e bambini, erano gli abitanti di una città, non erano dei soldati: erano civili.
A parte il fatto che nessun tribunale ha mai potuto giudicare questo e altri crimini contro l’Umanità di cui avevano responsabilità gli USA, molti anni dopo fu chiesto in un’intervista fatta a chi sganciò materialmente la bomba, cosa avesse provato nell’incenerire in un attimo migliaia di vite.
La risposta fu: “Ma io ho solo schiacciato un bottone!” (pare che i due piloti dell’Enola Gay, il bombardiere che custodiva la bomba volando sui cieli del Giappone, siano finiti l’uno prete e l’altro suicida, come a dire che hanno poi fatto dei conti con le conseguenze delle proprie azioni).
Non c’era alcuna percezione della responsabilità di quello che era avvenuto; d'altronde essa non c’era nemmeno in chi aveva materialmente costruito la bomba, nei tecnici, negli operai, forse anche negli scienziati che la misero a punto.

E’ di questi giorni la notizia che i soldati americani che hanno ucciso Nicola Calipari non verranno giudicati; non sono colpevoli, hanno eseguito gli ordini secondo le cosiddette regole di ingaggio, tali per cui è possibile sparare a chiunque per “difesa preventiva” (ciò è, in fondo, perfettamente coerente con lo stesso concetto della “guerra preventiva” che rende possibile sparare preventivamente, appunto, su chiunque; chissà quanti altri iracheni o afgani civili sono finiti sotto il fuoco degli alleati, ma hanno avuto la “sfortuna” di essere dei signor Nessuno, che non fanno certo notizia e non scomodano commissioni parlamentari in loro difesa; degli “effetti collaterali” alla democratizzazione dei loro Paesi, ma questa è un’altra storia…).

Il Fare, come logica prevalente, si è imposto lentamente, come ingrediente fondamentale della società della Tecnica e dell’Economia, al punto che oggigiorno questa logica fa parte di tutti noi.
Oggi tutti noi siamo nella stessa posizione del soldato che esegue l’ordine, e che non si pone domande sulle conseguenze della propria azione.
Oggi questa mentalità, la mentalità del Fare è assolutamente implicita alla vita delle società occidentali e permea silenziosamente ciò che ognuno di noi quotidianamente fa.
Il dramma serio è che sembra diventato impossibile tornare all’Agire, perché se tornassimo a riflettere sulle conseguenze delle nostre azioni quotidiane, il meccanismo su cui si basa la società dei consumi, della tecnica e del profitto, si incepperebbe.

Un operaio che lavora in una fabbrica di frigoriferi o un operaio che lavora in una fabbrica di mine, secondo questa logica, sono assolutamente uguali. Se si chiedesse ad un operaio che avvita parti di una mina anti-uomo come si sente riguardo a ciò che sta facendo, probabilmente direbbe “Ma io avvito un bullone!”. Non è sua responsabilità se quello che sta costruendo farà saltare per aria un essere umano da qualche parte del mondo.

Ho scoperto oggi che la mia banca fa parte di un gruppo bancario che ha utili e attività nella vendita di armi.
I miei soldi, i miei fondi di investimento, crescono o decrescono a seconda di transazioni e operazioni su vari livelli, tra i quali c’è anche il business degli armamenti. Io dico tranquillamente “Ma io ho solo versato dei soldi su un conto, il mio conto: che responsabilità dovrei avere rispetto a come vengono usati i miei soldi?”.
Credo che, in buona fede, ogni bravo cittadino non si senta certo responsabile del come vengano utilizzati i propri soldi nel sistema bancario, purché si ricevano gli interessi pattuiti. Non si sente responsabile nemmeno il mio promotore finanziario, nemmeno chi fa l’impiegato in una banca, né, credo, chi fa parte della dirigenza o della consulenza.
Le Banche non sono certo degli enti di beneficenza, anzi…ma chi ci lavora non si sente per questo un delinquente o un criminale: FA, fa quello che il proprio ruolo richiede, punto. Anche se spesso la Banca agisce in modo criminale.

Lo stesso discorso potrebbe essere fatto per il consumismo. La scorsa settimana la Nike ha reso nota dopo anni, sotto le pressioni dei gruppi internazionali che si occupano diritti umani, la dislocazione delle fabbriche delle proprie scarpe e le condizioni inumane di lavoro in cui donne e spesso bambini si sono trovati per anni, senza il minimo rispetto degli orari, dell’età, dei diritti, della retribuzione. “Io ho solo acquistato un paio di scarpe”, direbbe certamente il cliente con ai piedi un paio di Nike, “Non ho io la responsabilità di quello che accade in una fabbrica in Cina dove la mia scarpa viene fatta”.

La domanda però potrebbe essere: davvero non abbiamo alcuna responsabilità, nel momento in cui SAPPIAMO cosa accade?
Il modello capitalistico e l’etica del profitto giustificano azioni aberranti in tutto il mondo: secondo una logica assolutamente folle, che ereditiamo dall’Illuminismo, “Tutto ciò che PUO’ essere fatto VA FATTO”, senza preoccuparsi delle conseguenze né del piano etico (o ambientale, o umano)
Questa logica, la logica del Fare, appunto, da decenni guida la ricerca e l’evoluzione tecnica. Davvero non abbiamo responsabilità alcuna?

Ad esempio, tutti noi utilizziamo il cellulare, senza che ci sia mai stata una ricerca seria sulle conseguenze dell’esposizione alle onde elettromagnetiche sull’essere umano! Ma siccome può essere fatto, VA FATTO. E’ un affare che crea posti di lavoro, ricchezza, benessere, denaro, profitto e anche comodità, un servizio utile che mette in contatto le persone tra loro e quant’altro.
Non importa se magari un po’ di gente avrà qualche tumore al cervello in più, non importa se ogni anno 50/60 milioni di tonnellate di cellulari usati e buttati via vengono spediti al di fuori dei confini dei paesi occidentali e finiscono in regioni della Cina ad alimentare l’economia di una massa di derelitti che li smontano, ne estraggono piccole quantità di metalli, per poi bruciare la plastica e inquinare un’area estesissima. Questo fenomeno, a cui addirittura i mass media hanno dedicato dell’attenzione, è conosciuto e si sa che sta pericolosamente devastando una zona del nostro Pianeta e facendo morire come mosche la popolazione del luogo.
“Ma io ho solo cambiato cellulare”, anche se non ne avevo bisogno, anche se è solo per moda, per avere una nuova suoneria, per fare la foto (ma non c’erano già le macchine fotografiche?), per fare un filmino, per parlare vedendo l’altro...
Nella logica del Fare io non mi sento responsabile di un disastro ambientale o della morte di persone nella stessa area inquinatissima. Né mi sento responsabile del tumore che potrebbe venire a me o a mio figlio, al quale ho dato il cellulare per regalo, perché come è possibile non darglielo anche se va alle elementari, quando tutti i compagni ce l’hanno? Si sentirebbe un emarginato se non sfoggiasse il nuovo modello, la nuova suoneria, il nuovo wall paper…
A chi di noi viene in mente che mentre faccio benzina (quanto è cara…) sto alimentando le guerre per il petrolio? Chi se ne sentirebbe davvero responsabile? Gli esempi, in questo senso, di un Fare svincolato dal pensiero delle conseguenze concatenate, potrebbero essere infiniti.

Per questo amaramente riflettevo sull’apparente inevitabilità di tutto questo: non appena mi muovo e faccio quello che il mio ruolo di cittadino occidentale mi impone di fare, se rifletto sulle remote conseguenze, a volte nemmeno tanto remote, scopro di essere correo, corresponsabile.
Eppure, in una logica dell’Agire, se cioè tenessimo conto delle conseguenze di ciò che compriamo, di ciò che produciamo, di ciò che vendiamo, di ciò che apprezziamo e ricerchiamo, forse ci fermeremmo un istante.
La dimensione etica potrebbe rientrare in gioco: davvero tutto ciò che può essere fatto VA FATTO? Il limite lo metterebbe la dimensione etica. Alcune cose, anche se si possono FARE, non vanno AGITE.

Chi di noi vorrebbe che un figlio di 5 o 6 anni lavorasse 14 ore al giorno per pochi centesimi? Chi di noi vorrebbe che un figlio vivesse in un mondo che si avvia a diventare come quella immensa regione cinese, un velenoso cimitero di rifiuti del consumismo? Chi di noi vorrebbe una figlia prostituta a 12 anni, per il divertimento di turisti sessuali?
Si può fare? Si fa! Nell’ottica della legge della domanda-offerta, si può fare (in Brasile, a S. Domingo, nell’Asia meridionale, nell’Est Europeo) e si fa…

Parafrasando “Russians”, una bella canzone del buon vecchio Sting, degli anni ’80, spero che l’Essere Umano ami ancora i propri figli…

Se la dimensione etica non rientra in gioco e riprende il posto che è stato invece follemente lasciato in mano al Fare, fare soldi, fare affari, fare tecnico, fare profitto ad ogni costo, mascherato da benessere, se non si torna all’ottica dell’Agire, alla responsabilità diretta sulle nostre azioni, forse si potrebbe dire che in questa società di eterni adolescenti non c’è più spazio per amare i figli…
I figli e la loro tutela significherebbero qui, simbolicamente, l’amore per un futuro possibile, mentre l’eterno adolescente che si sente in diritto di avere tutto e subito, senza preoccuparsi delle conseguenze delle proprie azioni, rappresenta bene quel tipo di uomo che dal Colonialismo, alla Rivoluzione Industriale, dall’era della Tecnica al nazismo alla società dei consumi, sta scavandosi la fossa con le proprie mani illudendosi di non finirci dentro.

Giorgio Tricarico


Giorgio TRICARICO